Le situazioni di lui e lei netflix

Cosa guardare su Netflix: la nostra selezione di film e serie tv da vedere aggiornata a Ottobre 2022

Cosa guardare su Netflix ora che alle calde e lunghe serate estive si sostituiscono le prime piogge e la voglia di divano e copertina?

** Le serie tv femminili più belle da vedere in streaming **

Per non farvi perdere tempo nella scelta, ogni mese aggiorniamo l'elenco di serie tv, film e documentari che vale la pena vedere su Netflix scegliendo tra le numerosissime novità in catalogoi film storici da (ri)vedere e le nuove stagioni in arrivo delle serie tv più belle.

** I film più belli delle vecchie edizioni da (ri)vedere in streaming **

Cosa guardare su Netflix

NAVIGAZIONE RAPIDA

Film da vedere su Netflix

Serie TV da vedere su Netflix

Documentari da vedere su Netflix

Tre gallery da sfogliare per altrettante categorie: film, serie tv e documentari.

Nella prima le nuove uscite cinematografiche, le produzioni originali Netflix da non perdere e i vecchi film cult in arrivo sulla piattaforma; nella seconda le nuove serie da non perdere e quelle che hanno fatto storia da recuperare in binge; la terza è dedicata ai documentari

I primi titoli sono quelli caricati nel mese in corso, man mano che si prosegue a sfogliare ci sono quelli già disponibili.

Non vi resta che scegliere cosa guardare su Netflix stasera!

Film da vedere su Netflix

Se avete voglia di qualcosa da iniziare e finire nel corso di una sera, tra i film da vedere su Netflix non c'è che l'imbarazzo della scelta.

** I più bei film tratti da storie vere da vedere su Netflix **

I nuovi titoli del mese? La ragazza più fortunata del mondo (dal 7 Ottobre), Rapiniamo il Duce (dal 26) e Niente di nuovo sul fronte occidentale (dal 28).

Se ve lo foste perso, poi, correte a recuperare Blonde, il film su Marylin Monroe presentato al Festival di Venezia e su Netflix da fine Settembre.

Per tutte le altre trame e i nostri suggerimenti, sfogliate la gallery.

Film da vedere su Netflix

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Serie TV da vedere su Netflix

Sono tante le novità di questo mese, tutti titoli inediti alla loro prima stagione.

 **Le migliori serie tv del 2021**

Se poi ancora non l'aveste visto, recuperate Skam Italia, (la quinta stagione è arrivata a Settembre). Considerato dalla critica italiana e internazionale uno dei migliori adattamenti dell’omonimo show norvegese, se non conosceste questa italianissima serie sull'adolescenza vi consigliamo di darle un'occasione - anche solo per sapere di cosa si parla, vista la sua popolarità.

Trovate le trame nella gallery qui sotto.

** Le più belle serie tv romantiche da vedere su Netflix **

** Le migliori serie tv poliziesche da vedere su Netflix **

Per il resto, ecco nella gallery le migliori serie tv da vedere su Netflix.

Serie tv da vedere su Netflix

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Documentari da vedere su Netflix

Tra i documentari di Netflix da vedere si trova davvero di tutto.

Da quelli sulla natura a quelli dedicati a rapine, casi di cronaca o personaggi dello spettacolo o dello sport, ce n'è per accontentare i gusti di tutti.

I documentari da vedere su Netflix

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Prodotta da MTV nel 2015 negli Stati Uniti e lanciata su Netflix nel 2016 in Italia, la serie tv Scream, comprensiva di due stagioni, è una serie tv slasher bastata sull’omonima saga cinematografica degli anni ’90 diretta da Wes Craven. Tutti ce la ricordiamo come una saga “Horror Comedy”, quindi con i classici stereotipi da film horror ma portati all’estremo, fino a farli diventare grotteschi e quasi divertenti. La particolarità è che i protagonisti sia del film che della serie, spesso, si ritrovano vittime dei loro stessi giochi; anche l’ordine degli efferati omicidi segue delle logiche consuete agli appassionati del genere.

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Come nel film originale anche nella serie un gruppo di liceali si ritrova a sfuggire da un serial killer, che, seguendo la sua malata logica, ha preparato alla perfezione un piano crudele per ammazzarli tutti ad uno ad uno, Questa volta non ci troviamo davanti ad una cosiddetta “trashata” (ossia qualcosa di banale e fatto solo da plateali schizzi di sangue) ma al contrario la suspense, il mistero e i giochi psicologici che la caratterizzano la rendono un prodotto appetibile agli appassionati di slasher e meno, anche se comunque non manca un po’ di sano splatter.

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Una serie di eventi, partendo da un episodio di cyber bullismo scoppiato in un liceo , porta a pensare che l’assassino sia un personaggio differente per ogni episodio ma solo alla fine (cioè probabilmente dopo qualche ora di binge watching) scopriremo la verità.

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L’unica pecca di questa serie è che, a nostro parere, per quanto riguarda la prima stagione in particolar modo, si tende a fare riferimenti un po’ troppo espliciti al film originale di Wes Craven, soprattutto per quanto riguarda la linea narrativa; percio’ per chi l’ha visto non sara’ tanto difficile arrivare a capire chi sarà “il prossimo a morire” o addirittura l’assassino. In ogni caso, sia che si abbia visto o no l’originale, ci si trovera’ davanti ad una serie tv che mette assieme romanticismo, commedia, suspense, azione, splatter in un’unica storia.

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Scritta veramente bene, leggera e poco impegnativa, la consigliamo a un pubblico giovane e a chi vuole passarsi una bella serata in compagnia con cibo, amici, e una serie tutt’altro che noiosa. Potrebbe piacere soprattutto agli appassionati di “Teen Drama” dato il cast conosciuto e talentuoso ; infatti proprio ai Teen Choice Awards 2015, la serie è stata candidata come miglior “serie estiva” (così come gli attori Bella Thorne e Willa Fitzgerald)

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Se avete già visto Scream e siete già in crisi d’astinenza, non preoccupatevi! Infatti per il 2018 è prevista una terza stagione che sarà un reboot; anche se con attori e trama differenti, abbiamo fiducia che anche la prossima stagione sarà divertente e super spaventosa!

Alessia Tedesco

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Fuori piove? Fa troppo freddo per prendere la bicicletta e andare a lezione? Avete voglia di prendervi una pausetta dallo studio? Dopo il primo post sull’argomento (che da bravi studenti potete recuperare qui) ecco altre cinque serie comedy da divorare in queste giornate uggiose.

“Atlanta” FX

Scritta e interpretata dal rapper/stand-up comedian/futuro giovane Lando di Star Wars/Troy di Community Donald Glover, la serie parla delle vicissitudini del nostro protagonista e del microcosmo che gli gira attorno, composto da ex e amici rapper, che vivono ad Atlanta, il tutto con un tono surreale che ricorda la serie compagna di rete “Louie” del comico Louis CK. Se vi piace un humor “WTF?!” questa è la serie per voi.

“Love” Netflix

Mettete una ragazza problematica. Mettete un bravo ragazzo. Mettete che si incontrano e si frequentano ma… stanno insieme? Sono solo amici con benefici? O forse si sono innamorati? Questa è Love. Scritta da Judd Apatow per Netflix, conta già due stagioni nelle quali “Gus e Mickey scopriranno le euforie e le umiliazioni dell’intimità, dell’impegno, dell’amore e di altre situazioni che speravano di evitare”… insomma, tutti possiamo riconoscerci.

“Mozart in the Jungle” Amazon Video

Hailey è un’aspirante oboista e si ritrova a un provino per la New York Philarmonic. Non viene presa, ma lo stravagante direttore d’orchestra Rodrigo vede qualcosa in lei e decide di darle una possibilità come… assistente personale. Hailey diventa allora la nostra imbucata nel mondo della musica classica, che scopriamo non essere per niente inquadrato e monastico. Ottimo cast, buona musica e un team molto hipster (vi bastino Jason Schwartzman e Roman Coppola, frequenti collaboratori di Wes Anderson) questa serie vi farà venir voglia di imparare a suonare tutto Beethoven.

“Braindead” CBS

Braindead potrebbe lasciarvi perplessi all’inizio:”Come, una serie sulla politica può essere divertente?” 1. Sì, guardate Veep. 2. Anche Braindead vi farà morire dalle risate. In questa serie si riescono a mischiare politica, alieni, botanica e relazioni disfunzionali. Se non ci credete guardate questi 13 episodi e vi assicuriamo rimarrete positivamente sorpresi.

“Fleabag” BBC/Amazon Video

Fleabag è una donna londinese, di cui non si scoprirà mai il vero nome, la cui vita sembra riservarle solo pugni nelle ovaie. La sua famiglia è un po’ disfunzionale; i suoi progetti alquanto eclettici e bizzarri (vedasi il suo bar a tema porcellini d’India); la sua vita sentimentale un grande hot mess. In tutta questa miseria la creatrice e attrice protagonista Phoebe Waller-Bridge ci sa regalare dei momenti esilaranti. Come si fa a non innamorarsi di una donna che si masturba guardando i discorsi di Obama? #smartisthenewsexy

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È il 15 luglio 2016. Netflix furtivamente pubblica Stranger Things, una serie originale, con protagonisti giovani e sconosciuti, che tuttavia attira subito l’attenzione: il ritmo incalzante, l’ambientazione anni ’80 e l’inaspettata audacia dei piccoli protagonisti conquistano il pubblico. Ma uno dei punti di forza della serie, ciò che l’ha elevata al titolo di “cult”, è indubbiamente il suo spiccato omaggio al cinema, vecchio e nuovo, continuamente evidenziato dai fratelli Duffer. Le citazioni al passato sono infatti il tratto distintivo della serie, che trova il proprio punto di forza nella nostalgia. Ma in che modo l’immaginario cinematografico, letterario, musicale e addirittura videoludico degli anni ’80 (e non solo) è stato assorbito e veicolato da Stranger Things?

Procediamo con ordine: inizialmente i fratelli Duffer avevano pensato di girare la serie a Montauk (Long Island) per rievocare l’ambientazione di Amity de “Lo Squalo” (Steven Spielberg, 1975). Per motivi tecnici la serie è stata girata in Georgia, ma questo non ha impedito ai fratelli di ispirare il set e le scenografie alle indimenticabili opere cinematografiche degli anni ’80, ma soprattutto non ha impedito la presenza di riferimenti al cinema di Spielberg, che gioca un ruolo importante nella serie. Film cult, enormemente citato, è sicuramente E.T. (1982), emblema dello stile e dei temi “spielberghiani”. La serie non solo porta in vita sequenze che hanno fatto la storia del cinema, ma anche uno dei temi ricorrenti della cinematografia di Spielberg: la disgregazione della famiglia, prevalentemente a causa dell’assenza del padre. Qui ritroviamo Joyce Byers (Winona Ryder), madre single, e Lonnie Byers (Ross Partridge), padre assente nelle vite di Will e Jonathan. Il tema, secondo le parole di Spielberg “molto personale… sulla storia dei miei genitori e di come mi sono sentito quando si sono lasciati”, viene riproposto da Stranger Things come un tòpos della cinematografia degli anni ’80, in un contesto storico e sociale in cui erano molto discussi le famiglie con un solo genitore, l’assenza del padre e il divorzio. È innegabile la volontà di omaggiare il padre di E.T., specialmente se il secondo film più citato è “I Goonies” (1985) di Richard Donner, nato da un soggetto di Steven Spielberg.

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Stranger Things, inoltre, riporta sul piccolo schermo le convenzioni del genere fantascientifico e horror, a partire dalle atmosfere cupe e tenebrose. La telecinesi, gli esperimenti e gli studi effettuati su Undici non possono che ricordare la piccola Charlie di “Fenomeni Paranormali Incontrollabili” (Mark L. Lester, 1984), tenuta prigioniera in una base militare per via dei suoi poteri. La presenza della creatura mostruosa fuoriuscita dal “Sottosopra” e la stessa ambientazione della dimensione alternativa sono riconducibili ad Alien (Ridley Scott, 1979), con il suo Xenomorfo umanoide. Non è un caso che il “Sottosopra” e la creatura che lo abita in Stranger Things necessitino di vite umane per sopravvivere, quasi come lo Xenomorfo di Alien utilizza l’uomo come incubatrice per la propria prole. Il mostro omicida presenta inoltre delle caratteristiche che rimandano allo squalo assassino del sopracitato “Lo Squalo” di Spielberg, in quanto entrambi sono soliti trovare le proprie vittime fiutando il sangue. La serie riprende gli schemi narrativi tipici degli horror, presentando personaggi e situazioni insoliti, adattati alle situazioni e alle ansie più comuni, dai timori dei genitori nel veder crescere i figli, alle paure che si celano tra amici di lunga data fino alla presenza di una visitatrice dall’aspetto intimidatorio che cela capacità meravigliose. Non mancano la suspense e il ritmo incalzante, così Nightmare (Wes Craven, 1984), Poltergeist (Tobe Hooper, 1982), Carrie (Brian De Palma, 1976) e Shining (Stanley Kubrick, 1980) ritornano in vita per pochi istanti.

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I riferimenti nella serie non si limitano agli anni ‘80, ma si addentrano anche nel nuovo millennio con gli evidenti riferimenti a “Under The Skin” (Jonathan Glazer, 2013) per il luogo in cui si ritrova Undici nella vasca di deprivazione sensoriale, un ambiente apatico, nero, che corrisponde all’ambiente onirico in cui Laura porta le proprie vittime. Quella stessa vasca rimanda inoltre al cult di fantascienza Minority Report (Steven Spielberg, 2002), che ancora una volta sottolinea l’importanza del regista di “E.T.” nell’immaginario di Stranger Things, e analogamente rievoca il pilot del coinvolgente “Fringe” (J.J. Abrams, 2008). Non mancano altre somiglianze con il mondo televisivo: la suggestiva sequenza dell’agente Cooper di “Twin Peaks” (David Lynch, 1990) di fronte allo specchio nell’episodio conclusivo della seconda stagione, ripresa poi proprio nell’ultimo episodio di Stranger Things, con il piccolo Will di fronte allo specchio ad affrontare la scioccante verità.

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Twin Peaks
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Stranger Things

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Stranger Things

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Minority Report

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Fringe

Ad influenzare il mondo di Stranger Things non è solo il cinema, ma anche la letteratura e la musica. Innanzitutto il titolo della serie richiama il romanzo di Stephen King “Needful Things” (Cose Preziose), dalla cui copertina è stato tratto il font (ITC Benguiat) diventato ormai caratteristico dell’opera televisiva. Altra citazione letteraria, seppur velata, è quella a “It” (Stephen King, 1986), rievocato dalle parole di Joyce quando in un flashback chiede a Will se ha ancora paura dei clown, e dallo stesso Will che scompare nel nulla proprio come le piccole vittime del “Pennywise” di King. È sa sottolineare anche la somiglianza con i protagonisti di “Stand By Me” (Rob Reiner, 1986), tratto dal racconto “The Body”, sempre di Stephen King, che dà anche il titolo al quarto episodio (Chapter Four: The Body). Un ulteriore riferimento letterario è all’universo di Tolkien, evocato in uno degli incroci della città sopranominato “Mirkwood” (Bosco Atro, madrepatria di Legolas), e nella parola d’ordine per entrare nella fortezza di Will, “Redagast”, uno degli stregoni della Terra di Mezzo.

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La serie però  trae ispirazione addirittura dal mondo videoludico, rievocando le atmosfere tipiche dei survival horror, in particolare di “Silent Hill” per la concezione del “Sottosopra” come ombra oscura del mondo reale, come hanno più volte ribadito i fratelli Duffer, i quali hanno concepito le creature come “mostri senza volto, con lunghe braccia e una testa che si apre come un fiore disgustoso quando è ora di mangiare”, ricordando il Clicker del videogioco “The Last Of Us”.

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Stranger Things
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The Last Of Us

Anche per il mondo della musica possiamo individuare molteplici riferimenti al passato. L’intenzione di Micheal Stein e Kyle Dixon, ex membri della band SURVIVE, era quella di usare fortemente i synth inquietanti per produrre una musica elettronica che in qualche modo rievoca fortemente gli anni ’80. Si ispirano quindi allo stile di Carpenter e alle produzioni del gruppo tedesco Tangerine Dream (1967). Non sono da dimenticare inoltre i Clash con la loro “Should I stay or should I Go”, molto amata dal piccolo Will, che userà anche per comunicare con la madre durante il periodo di prigionia nel “Sottosopra”.

Stranger Things è innegabilmente un tuffo nel passato. Un ricordo nostalgico per i più grandi e un tentativo di far vivere alle nuove generazioni le stesse sensazioni dei classici degli anni ’80, in grado di risvegliare negli spettatori l’immaginazione e lo spirito di avventura. La volontà di riportare sullo schermo gli anni ’80 la si evince inoltre dalla presenza nella serie di due volti noti di quell’epoca: Winona Ryder (Beetlejuice, Schegge di Follia) prima scelta per il personaggio di Joyce Byers, madre di Will, e Matthew Modine (Birdy – Le ali della libertà, Full Metal Jacket, Una vedova allegra… ma non troppo), il Dr. Martin Brenner responsabile degli esperimenti su Undici. È proprio sul personaggio di Winona Ryder che si apre uno spunto di riflessione: sulla scia delle tematiche “spilberghiane”, risulta emblematico il fatto che sia proprio lei a riuscire a mettersi in contatto con il piccolo Will, con il quale ha un rapporto forse speciale, essendo l’unico genitore che si prende cura di lui, costretta a compensare la mancanza della figura paterna.

Stranger Things rientra senza dubbio tra le arti postmoderne, la cui caratteristica principale è proprio il citazionismo: avviene di fatto l’abbandono della ricerca del nuovo, un rifiuto dell’idea di progresso ed evoluzione continua, che comporta l’impossibilita di distinguere un’arte alta da una popolare. C’è così un utilizzo spregiudicato, senza limiti, di citazioni da ambiti diversi, un continuo mescolamento tra vecchio e nuovo. La trama è originale ed avvincente, arricchita dalla presenza di continui riferimenti a pietre miliari della cinematografia e del piccolo schermo, che coinvolge lo spettatore in una “caccia al tesoro”, una specie di gioco a quiz divertente e stimolante, mentre la storia si evolve tenendo tutti incollati allo schermo. Non si parla di una brutta copia dei capolavori del passato, ma di una serie che è stata in grado di emergere nel panorama delle serie tv attuali, consacrandosi come una perla rara in grado di riportare alla memoria dolci ricordi passati.

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Prima di cominciare, un piccolo disclaimer: sto impunemente copiando il format di questo articolo dallo YouTuber Dominic Smith, in arte The Dom. Gli ho chiesto personalmente (via Facebook) se lui aveva problemi col mio furto, e lui mi ha gentilmente risposto “Eammecheccazzomenefregammè”. Comunque ecco il link del suo canale: dategli due occhiate.

Ah già, secondo disclaimer: in questo articolo parlerò in dettaglio di alcuni archi narrativi che coprono tutte le stagioni di OITNB. Cerco di evitare spoiler pesanti, ma chi non l’ha vista continui a suo rischio e periglio.

Detto questo, Orange is the New Black! Il libro autobiografico pubblicato nel 2010 ma che racconta eventi avvenuti tra il 2003 e il 2004, scritto da Piper Kerman, e che racconta i suoi 12 mesi (circa) trascorsi nel penitenziario di minima sicurezza di Danbury, nel Connecticut, per un reato legato alla droga commesso dieci anni prima…

Ma anche Orange is the New Black, la serie originale Netflix creata da Jenji Kohan (già nota per Weeds, la serie che anticipò Breaking Bad sui tempi, ma ebbe meno successo) e composta attualmente di cinque stagioni, la prima delle quali andò in onda nel 2013; e racconta di Piper Chapman, e dei suoi (periodo di tempo indeterminato che durerà finché la serie viene rinnovata) mesi nel penitenziario fittizio di Litchfield, sempre per un reato legato alla droga commesso dieci anni prima.

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Non è né il momento né il luogo di parlare di come sia nata la serie OITNB o di quale sia il ruolo della diretta interessata nella creazione della sceneggiatura, limitiamoci a vedere come è cambiata dalla carta allo schermo la vicenda di Piper Ker… ehm, Chap… ehm, Piper.

Iniziamo con una sinossi del libro, anche se non è molto semplice visto che segue una struttura molto episodica e poco lineare. Piper Kerman è una giovane bionda occhi azzurri col 40 di piede che durante uno dei suoi lavori giovanili da cameriera conosce Nora, una donna più vecchia, misteriosa e affascinante, della quale si invaghisce. Nora trascina Piper nel suo giro di affari più o meno loschi, con dei viaggi in giro per il mondo che la protagonista vede come delle grandi vacanze (solo con un po’ più ansia al ritiro bagagli).

Dopo l’ennesima lite, Piper taglia i ponti con Nora e il suo traffico di droga (dico “suo”, ma è bene chiarire che Nora come Piper non è altro che una pedina) e poco tempo dopo si fidanza con il suo amico Larry Smith (descritto come l’esatto contrario degli uomini che Piper frequentava di solito). Dopo sette anni di felice convivenza medioborghese arriva la doccia fredda: Piper dovrà scontare quindici mesi in un carcere federale per via della sua complicità involontaria nei reati commessi anni prima dal giro di Nora.

Sia la famiglia di Piper che quella di Larry si dimostrano incredibilmente comprensive della situazione e disposte a supportare la giovane donna, mentre questa prepara il suo ingresso in carcere.

In prigione, Piper farà la conoscenza di guardie menefreghiste e detenute bizzarre, e affronterà varie situazioni tipiche della vita dietro le sbarre: solitudine, ingiustizia, essere trattati come rifiuti della società… il tutto è raccontato con grande realismo, anche se l’autrice non smette mai di ripetere quanto sia fortunata rispetto ad alcune altre delle sue compagne di prigionia, ad avere amici e famiglia e soprattutto una casa e un lavoro assicurati quando uscirà dal carcere.

Essendo autobiografico, il libro non ha una grande struttura narrativa a tre atti, ma si compone di diversi episodi raccontati in ordine più o meno cronologico, ma nel complesso slegati tra di loro. La storia si conclude, prevedibilmente, con il rilascio di Piper dopo poco più di un anno.

La prigione realmente esistente di Danbury, come detto, è diventata la fittizia Litchfield. Iniziamo vedendo le principali detenute e guardie che la popolano, e se le versioni dei due media si assomigliano.

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La prigione di Danbury. Non vedo galline…

I personaggi

Tanto per cominciare, nella serie, tutti i personaggi hanno un nome diverso rispetto al libro (e non capisco bene perché, visto che già nel libro i nomi dei personaggi sono diversi rispetto alla realtà). La protagonista di chiama Piper Chapman, ed è interpretata dall’egualmente bionda occhi azzurri (per la misura di piede non ho controllato) Taylor Schilling. Al suo personaggio è stata aggiunta una passione per la nutrizione e un piccolo business di saponi fatti in casa… oltre che una tendenza alle bastardate.

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Ci vedo doppio.

Nora è diventata la “femme fatale” Alex Vause, interpretata da Laura Prepon (che ha anche diretto uno degli episodi della quinta stagione), e il suo ruolo è stato ampliato enormemente rispetto al libro: infatti una delle differenze più grandi tra le due versioni della storia è che nel libro Alex/Nora è sì detenuta, ma non nello stesso carcere di Piper. Le due si rincontreranno solo quando Piper viene trasferita temporaneamente in un carcere di Chicago per testimoniare al processo di uno dei suoi ex-complici (cosa che avviene in entrambe le versioni, ma nella serie alla fine della prima stagione, mentre nel libro quasi verso la fine della detenzione di Piper). Le due ritornano amiche ma non vi è alcun ritorno di fiamma erotico; la Piper cartacea stabilisce chiaramente di non aver intenzione di entrare nel giro del sesso da galera.

Larry Smith qui diventa Larry Bloom, e a dargli il volto è Jason Biggs (noto ai fan della saga di American Pie). Il Larry della serie è molto meno simpatico della sua controparte cartacea (e sicuramente anche di quella reale) e fortunatamente a un certo punto lui e Piper si lasciano e non lo si vede più (cosa che speriamo il vero Larry abbia preso bene). Un dettaglio mantenuto tra le due versioni è che Larry chiede a Piper di sposarlo subito prima che questa inizi il suo periodo in carcere.

Molti altri personaggi, in particolar modo le detenute e le loro storie, sono stati modificati e soprattutto ampliati, grazie all’aggiunta di flashback che raccontano il passato di ogni detenuta (comprensibile, visto il passaggio da un breve libro autobiografico basato sull’omertosa esperienza della prigione a una serie che deve far affezionare ai personaggi).

Nel libro la capocuoca del carcere è una delle detenute più anziane, una donna di origine russa di nome Pop. Nella serie il suo nome è diventato Red (Kate Mulgrew, nientemeno che il capitano Janeway di Star Trek – Voyager), ma il carattere è rimasto più o meno lo stesso, inclusa la sua vena materna verso le detenute più giovani e/o fragili, e il loro chiamarla “mamma”. È mantenuta anche la breve parentesi narrativa nella quale Piper insulta la cucina di Pop/Red senza sapere di averne davanti la responsabile. Il modo in cui la protagonista si fa perdonare è leggermente diverso, ma gira sempre attorno alla schiena dolorante della cuoca (nel libro è una semplice asse di legno sotto il materasso invece della più melodrammatica crema lenitiva artigianale). Nel libro Pop rimane sempre incaricata della cucina (non viene mai cacciata e non inizia il club di giardinaggio) e viene rilasciata (dopo 12 anni dietro le sbarre) più meno contemporaneamente a Piper.

Il personaggio che ha subito un ampliamento superiore a tutti gli altri è senza dubbio l’amatissima Suzanne “Occhi Pazzi” Warren. Nel libro è un’ispanica di nome Lili Cabrales, che una Piper sconcertata vede urinare davanti al cubicolo di una compagna durante una delle sue prime notti. In seguito Lili sviluppa una breve infatuazione per Piper, ma la freddezza di quest’ultima spegne presto i bollori di “Occhi Pazzi”. Nella serie Suzanne è l’attrice Uzo Aduba (di cui passò alla storia la doppietta di Emmy per lo stesso personaggio, prima in categoria commedia e poi dramma). La “Occhi Pazzi” della serie è afroamericana, e la destinataria del suo, ehm, “corteggiamento diuretico” è la stessa Piper. Dopo essere stata rifiutata, Suzanne sarà protagonista di molte altre sotto-trame nella serie. Pare che il suo ruolo sia stato ampliato sempre di più in seguito alla popolarità del personaggio presso i fan.

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La reazione dei fan quando Orange is the New Black è stata premiata come serie comedy.

È mantenuta abbastanza fedele la vicenda del processo alla celebrità televisiva Martha Stewart, nella serie trasformata nella parodia Judy King (Blair Brown, la Nina di Fringe). Come nel libro, le detenute di Litchfield/Danbury seguono con fermento gli sviluppi del processo, con la speranza che la celebrità venga assegnata al loro penitenziario, cosa che potrebbe risultare in un miglioramento del tenore di vita. Ovviamente, siccome la realtà non è mai all’altezza della fiction, nel libro la Stewart non viene mandata a Danbury (anzi, l’amministrazione chiude temporaneamente le porte del carcere a nuove detenute proprio per evitare quest’eventualità), e pertanto tutte le trame che hanno per protagonista Judy King sono esclusive della serie. È stato però mantenuto il dettaglio del drone fotografico che sorvola il campo in quel periodo.

Uno dei personaggi più noti della serie è la transessuale Sophia Burset (interpretata dall’attrice Laverne Cox e dal gemello, il musicista M. Lamar, nei flashback che la ritraggono prima del cambio di sesso). Sophia è basata su Vanessa Robinson, come lei transessuale ma le cui somiglianze si fermano qui: Vanessa è descritta come una fervente cristiana che ama cantare inni con la sua voce possente. Nel libro, Vanessa non gestisce il “salone di bellezza” della prigione (che comunque esiste) e non viene mai trasferita in isolamento. Viene inoltre menzionato l'”inconfondibile odore da uomo sudato” che affligge Vanessa (e di rimando tutte le sue compagne di stanza) durante l’estate.

La suora attivista Ardeth Platte (tra l’altro uno dei pochi personaggi ad essere raccontato nel libro con il suo vero nome) è mantenuta pressoché identica salvo il suo cambio di nome in Jane Ingalls. A darle il volto è Beth Fowler. Platte comunque non inizia mai uno sciopero della fame, almeno per quanto ne sappia la Piper del libro.

Per concludere la carrellata sulle detenute, citiamone un po’ in velocità (Nota: in questa sezione diamo per scontata l’affermazione “nella serie il suo ruolo è stato ampliato” visto che è vero per quasi tutti i personaggi): l’afroamericana esuberante Taystee (Danielle Brooks) è basata su un personaggio simile soprannominato “Delicious“. Quasi uguale il personaggio di “Big Boo” (Lea DeLaria), descritta nel libro come un “leviatano” che nonostante tutto riesce a sedurre ragazze molto più giovani e attraenti e fa sesso con loro in bella vista nelle docce comuni. L’istruttrice di yoga, nella serie chiamata Yoga Jones (Constance Schulman), nel libro è soprannominata Yoga Janet e viene rilasciata qualche tempo prima di Piper. Morello (Yael Stone) è basata su un personaggio dal nome simile: Minetta. Di Minetta si sa solo che è l’autista del pullman del campo, cosa che sorprende molto la Piper cartacea quando la vede per la prima volta. Nel libro appare anche una detenuta soprannominata “Pennsatucky“: di lei si dice che è stata dipendente dal crack ma a differenza delle altre tossiche del campo, una volta uscita di prigione vorrebbe ripulirsi e avere una famiglia.

Per quanto riguarda le guardie, il loro ruolo nella serie è stato ampliato ancora di più, se possibile. Lo scorbutico Butorsky è diventato Sam Healy (Michael Harney), ma a parte il cattivo carattere, la poca propensione alla burocrazia e la cattiva opinione che ha verso le lesbiche, il suo personaggio non è per niente approfondito nel libro; quindi la sua sposa per corrispondenza e la mezza storia con Red appaiono solo nella serie. I due agenti di grado inferiore, ovvero la perfetta incarnazione di “sbirro buono e sbirro cattivo”, nella serie sono George “Pornobaffo” Mendez (Pablo Schreiber) e John Bennett (Matt McGorry). Nel libro appare uno sgarbato e baffuto agente soprannominato “Pornostar Gay” (che non collabora a nessun traffico di droga all’interno della prigione) che però viene presto trasferito e sostituito dal più gentile agente Maple (che non mette incinta nessuna detenuta), riconoscibile dalla sua gamba artificiale “guadagnata” in Afghanistan.

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No, nel libro nessuna guardia resta in mutande.

La direttrice del carcere, nella serie Natalie Figueroa (Alysia Reiner), si chiama Deboo e nel libro appare solo all’inizio quando accoglie le detenute in prigione, cullandole con false promesse presto disilluse in Piper dalle donne più anziane.

Personaggi che sono stati creati solo per la serie includono le varie aiutanti di Red in cucina, inclusa la muta Norma (ironicamente la cantante Annie Golden); Daya (Dascha Polanco), la giovane ispanica messa incinta da Bennett; l’adorabile tossica Nicky Nichols (Natasha Lyonne, anche se potrebbe essere vagamente ispirata a un personaggio di nome Nina, che non finisce in massima sicurezza ma in una comunità di recupero post-rilascio) la perfida detenuta Vee (Lorraine Toussaint,  antagonista principale della seconda stagione), la madre di Pornobaffo (nientemeno che la Mary Steenburgen di Ritorno al Futuro – Parte III); e il capo delle guardie a partire dalla quarta stagione, il sadico Piscatella (Brad William Henke) (anche se il suo nome potrebbe derivare da Toricella, il personaggio secondario del libro che è diventato Joe “Lattina di Birra” Caputo).

Ci sono infine alcuni personaggi che appaiono solo nel libro e non nella serie TV, o il cui ruolo nella transizione tra i due media è più sfumato: tra essi abbiamo Rosemarie, che conforta Piper nel suo primo giorno in prigione (forse parte del suo personaggio è confluito in Morello?); Pom-Pom, la cui madre è stata nella stessa prigione (magari questo ha poi ispirato Daya e Aleida?); la musulmana ispanica attaccabrighe Ghada; e infine Gisela (una delle poche credenti non pazze della prigione) e Alice Gerard, che viene rinchiusa in massima sicurezza per aver denunciato ad alta voce i disagi del sistema di istruzione carceraria. (Alice è, inoltre, l’altro personaggio che ha lo stesso nome della sua controparte reale).

Cosa è rimasto lo stesso

Abbiamo visto che moltissimi personaggi sono stati creati appositamente per la serie o anche solo ampliati, e allo stesso modo anche molte vicende. Vediamo però quali avvenimenti narrati nel libro sono stati mantenuti nella serie TV.

Anzitutto si può notare che la parte più fedele al libro e alla realtà è l’inizio della vicenda: come già menzionato la backstory di Piper, Nora/Alex e Larry è più o meno la stessa, incluso Larry che chiede la mano di Piper subito prima che lei si consegni al carcere.

Quando Piper arriva a Danbury/Litchfield, viene messa in una stanza provvisoria insieme, tra le altre, a una detenuta di nome Miss Luz (nella serie Miss Rosa, interpretata da Barbara Rosenblat), corpulenta, calva e costretta a un respiratore per colpa del cancro.

La scena in cui Piper, su consiglio di un’altra detenuta, si sforza di piangere per fare pena a Caputo/Toricella e telefonare prima del dovuto a Larry è presa pari pari dal libro; come lo è (come già detto) l’involontario sgarro di Piper verso Red/Pop e il loro rappacificamento.

Preso dal libro è anche il trasferimento di Piper nel dormitorio B, soprannominato “il ghetto” perché popolato in prevalenza da afroamericane; ma nella serie verrà poi cambiata di posto, mentre nel libro rimane lì fino alla fine. La sua compagna di cubicolo nel “ghetto” è in entrambe le versioni una detenuta anziana, chiamata nel libro Natalie e nella serie Claudette (Michelle Hurst). Natalie non viene mai trasferita nel libro, e sarà insieme a Pop una delle maggiori figure di riferimento per la giovane protagonista. Nel libro è anche spiegato il significato dell’appellativo “Miss” che viene dato alle detenute più anziane e degne di rispetto, come appunto Natalie/Claudette e Luz/Rosa.

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She’s not impressed

Altre parentesi narrative mantenute intatte tra libro e serie sono l’assegnazione di Piper a un lavoro manuale per il quale non è per niente portata (nel libro falegnameria, nella serie elettricista), ma che col tempo riesce a imparare e la cui conoscenza l’aiuterà in seguito nella “vita reale”; l’incontro di orientamento al lavoro in cui varie detenute tra cui la protagonista vengono fatte vestire in modi diversi per capire qual è la tenuta più adatta a un colloquio e trasformano la cosa in una divertente “sfilata di moda”; il già citato trasferimento temporaneo di Piper nella prigione di Chicago per testimoniare; e il comportamento poco rispettoso tenuto da alcune delle guardie. Inoltre nel libro le detenute già da subito lavorano a costruire le case delle guardie, che non si trovano nel terreno intorno al campo ma normalmente in mezzo alla città.

Altri eventi tenuto come nel libro sono le feste: quelle organizzate dalle detenute quando una compagna deve venir rilasciata, e soprattutto la festa della mamma, nella quale l’intero campo viene aperto per un giorno ai figli delle ragazze e si organizzano varie attività per farli divertire… e una delle poche cose che sono felice succedano anche nella realtà.

Cosa hanno aggiunto

Normalmente parlando di come un libro è diventato film (o serie) si parlerebbe di cosa è stato tolto, ma qui non c’è molto a dire il vero…

Le grandi differenze sono quelle degli interi archi narrativi che sono stati aggiunti per rendere la serie più longeva e i personaggi più empatici. Non li racconto tutti perché sarebbe un elenco di tutti gli episodi, e per quello c’è Wikipedia. Mi limiterò a quelli più rilevanti.

Mentre la prima stagione è abbastanza fedele al libro, sono invenzioni degli sceneggiatori: le apparizioni della mitologica gallina, la rissa tra Piper e Pennsatucky e la rinchiusa della protagonista in isolamento; l’intera premessa della seconda stagione, ovvero l’arrivo di una vecchia detenuta che ammalia tutte le afroamericane per servirla nei suoi traffici; l’acquisizione del carcere da parte di una società privata per salvarlo dalla chiusura; l’evasione di massa e bagno nel lago alla fine della terza stagione (anche se questo avvenimento somiglia molto a una cosa successa nel libro, dove il responsabile del lavoro di Piper permette a lei e alle compagne di marinare il lavoro per una volta e passare una giornata al lago); l’intera sottotrama del traffico di mutandine usate ideato da Piper; e ovviamente l’uccisione accidentale di una detenuta da parte di una guardia inesperta e la conseguente rivolta che occupa l’interezza della quinta stagione.

Le guardie nel libro, seppure non molto rispettose dei diritti delle carcerate, si comportano in maniera molto meno esagerata che nella serie (in effetti la caratterizzazione caricaturale delle guardie, almeno nella prima stagione, era uno dei punti deboli della serie, per me). Nessuno urina nel cibo, strappa i capelli alla gente o uccide detenute schiacciandole involontariamente. La cosa che più vi si avvicina è quando nel libro uno dei dormitori viene completamente messo a soqquadro da una guardia in preda a un non precisato attacco d’ira. La guardia in questione viene subito allontanata dalla prigione senza bisogno di drogarla e legarla a una sedia.

Direi che questo può concludere la mia recensione dell’adattamento di Orange is the New Black. Sia il libro che la serie sono molto interessanti come prodotti a se stanti… per quanto riguarda l’adattamento sono un po’ combattuto. Da un lato la serie è ben scritta, con buona commistione di umorismo e serietà, e un sacco di personaggi incredibilmente approfonditi. Guardandola ho ammirato molto la capacità degli sceneggiatori di presentare inizialmente dei personaggi come stronzi per poi farceli stare simpatici (Red, Boo, Pennsatucky…).

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Non sono l’unico ad amare questa serie

Allo stesso tempo molti degli eventi, realistici, del romanzo sono stati, appunto, romanzati ed è stata aggiunta un sacco di roba che realisticamente è impossibile succeda tutta in un anno e poco più in cui la nostra protagonista è dietro le sbarre. Sì, lo so che “il giorno veramente incredibile sarà quello in cui non succede niente di interessante”, ma è un po’ stiracchiata l’idea che una povera crista qualunque che passa poco più di un anno in prigione subisca tutte queste cose… se tutti gli anni a Litchfield sono così, mi stupisco che ci sia ancora qualcuno in vita!

Scherzi a parte, adoro Orange is the New Black, sia come libro che come serie che come adattamento. Mi domando però, se il libro fosse stato scritto e finito sulla scrivania di un produttore dieci anni fa, quando ancora le serie TV non erano così di moda, se ne fosse stato fatto un film di due ore e mezza massimo, come sarebbe stato. Più realistico? Meno approfondito? Be’, con i “se” non si fa la storia.

Spero che questo articolo non vi abbia annoiato troppo (be’, se l’ha fatto non siete qui a leggerne la fine, no?) e ci vediamo! (Lo schermo diventa arancione e poi scorrono i titoli di coda con una canzone che ironicamente rispecchia l’immagine con cui si è chiuso l’episodio) (Questa cosa è una delle mie preferite in assoluto, comunque).

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Il Giappone è un posto strano, su questo possiamo essere d’accordo. Che voi ci siate stati davvero, che ci abbiate a che fare ogni giorno per lavoro o che ne siate stati esposti solo grazie alle infinite repliche di Sailor Moon, Dragon Ball e Doraemon; o anche che lo conosciate come patria di quei videogiochini belli che ci piacciono tanto, o dei porni bizzarri che insudiciano la vostra cronologia, per noi europei è sempre stata una chimera, una meta irraggiungibile. Come Bagdad per gli antichi crociati, un luogo esotico e misterioso dove le nostre regole non valgono.

Questo pippone filosofico mi serve per introdurre Good Morning Call, la serie prodotta da Netflix e Fuji Television datata 2016. La serie è tratta dall’omonimo manga shojo (che per chi non lo sa, vuol dire “romantico/per ragazze”, in contrapposizione agli shonen “d’azione/per ragazzi”) di Yue Takasuka, uscito dal 1997 al 2002. Non ho idea se il manga sia mai uscito in Italia, e di certo non l’ho letto (perché ho il pene) ma dall’annata sembrerebbe qualcosa di affine alle Rossane e ai Piccoli problemi di cuore che spopolavano ai miei tempi.

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Il cast al gran completo. Poco importa se alcuni di loro spariscono per metà stagione, no?

La serie ha per protagonista Nao Yoshikawa (Haruka Fukuhara, le cui paranoie adolescenziali non sono del tutto credibili essendo la ragazza più bella del cast), che per iniziare il liceo convince i genitori a farla vivere da sola. A scuola, Nao fa la conoscenza di Hisashi Uehara (Shun’ya Shiraishi, col suo fascino da boy band nipponica), il ragazzo piu corteggiato dell’istituto nonché assoluto pezzo di cacca. Una volta tornata a casa, Nao scopre di essere stata truffata: l’appartamento che credeva tutto per sé dovrà condividerlo nientemeno che con lo stesso Uehara! Da questa premessa vediamo come il rapporto tra i due si evolve: prima lui non vuole nemmeno che lei gli parli, poi pian piano la cosa inizia ad ammorbidirsi e… si, be’, vedetelo da voi.

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Non capisci, Nao? Vuole che tu lo segua! (Pianto)

Una cosa carina, durante i titoli di coda di ciascuna puntata ci vengono mostrate delle tavole del manga, per vedere come certe situazioni sono state trasportate dalla carta allo schermo. L’idea non è male, anche se da questo si può vedere che un intero episodio è stato trasferito di peso all’interno di un parco dei divertimenti (apparentemente) molto famoso. Product placement? Probabile, ma almeno hanno avuto il buon gusto di adattare le situazioni al contesto mantenendole loro stesse.

Good Morning Call ha il grande pregio, in questo mondo di oggi, di non prendersi troppo sul serio: è pienamente al corrente dell’assurdità ed esagerazione delle sue situazioni, e ha un senso dell’umorismo tutto giapponese. Chi conosce già manga e anime saprà cosa intendo, gli altri… guardate questo trailer ufficiale, dovreste farvi un’idea.

Sarebbe alquanto irrealistico guardare Good Morning Call aspettandosi Romeo e Giulietta, la storia è tanto leggera e insensata come solo le storie shojo sanno essere. Tra situazioni assurde, musichette buffe e scleri nippon (la serie non è stata doppiata in nessuna lingua, è disponibile solo in giapponese sottotitolato, per la gioia dei doppiaggiofobi li fuori). I personaggi si comportano in modi assurdi, verrebbe da pensare, tra il testardo orgoglio maschile di Uehara, il romanticismo da cartolina di Nao e altri personaggi come Daichi, un ex spasimante di Nao che non si dà per vinto nemmeno morto. Certo, personaggi insensati oggi, ma non abbiamo forse vissuto tutti un’epoca in cui questi comportamenti ci sembravano normali?

Tirando le somme… anche se nelle didascalie delle immagini ho fatto il simpaticissimo prendendolo in giro, Good Morning Call mi è piaciuto. Certo, non è assolutamente per tutti, ma se qualche amante delle romanticherie stucchevoli che non si prendono troppo sul serio (perché di romanticherie stucchevoli che si prendono troppo sul serio ne abbiamo tutti abbastanza), con un debole per le stupidaggini made in Japan, volesse essere riportato a un’età in cui comportarsi in modo cosi ridicolo ci sembrava del tutto ragionevole… consiglio di darci un’occhiata. Itadakimasu!

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Non temete, genitori: questa scena in cui lui entra per sbaglio mentre lei si lava i denti è il massimo della zozzeria di Good Morning Call. A parte quella tizia che quando è ubriaca bacia tutti…

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Da frequentatori accaniti di Netflix, siti di streaming (ops, si può dire?) e comunque, in generale, da amanti delle serie TV, vi siete forse chiesti come siano realizzate a livello tecnico: in poche parole, con che strumenti sono riprese? Che evoluzione hanno avuto storicamente? Cosa le differenzia dal più tradizionale medium cinematografico?

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Il primo punto da far presente è la destinazione del prodotto audiovisivo. La serie televisiva è, appunto, nata per andare in onda in televisione e non al cinema. Dunque fin dall’inizio la domanda è stata: come facciamo a mandare in onda una pellicola?!

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Se infatti nei primi tempi i programmi TV erano ripresi in tempo reale alla trasmissione, cioè in diretta, si ebbe quasi subito la necessità di registrare in qualche modo il programma. Ciò poneva un problema non di poco conto se pensiamo che la quasi totalità degli audiovisivi era impresso su pellicola (anche la stessa colonna sonora, quando non era magnetica, era una traccia ottica che correva parallela alla traccia visiva). La tecnica che venne impiegata, quindi, fu quella di girare il tutto in pellicola, per poi riprendere lo schermo di proiezione (o la moviola) con una telecamera e mandarlo in onda (sistema chiamato telecine). Viceversa, se il programma era in diretta e se ne voleva conservare una copia in archivio, l’unica scelta era quella di riprendere con una cinepresa a pellicola uno schermo televisivo. Insomma: è come se, invece di scaricare un video da YouTube, lo riprendessimo con un telefonino… poco pratico e con poca qualità. Eppure in molti lo fanno ugualmente perché non hanno trovato una soluzione migliore.

Nel caso della televisione, una soluzione si trovò e venne inventato il videoregistratore. Con l’avvento dei primi registratori da studio a bobine, costosissimi e pesantissimi, si passò gradualmente a un sistema ibrido: alcuni sceneggiati venivano registrati direttamente in RVM (registrazione video magnetica), altre serie in pellicola e poi riversate in RVM per una più comoda messa in onda. Quest’ultima soluzione fu impiegata per decenni, con i dovuti sviluppi tecnologici, sostanzialmente fino all’avvento della TV digitale (in figura, uno dei primi registratori Ampex per la trasmissione video).

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Anche con queste tecniche sorgeva però un problema non marginale, in quanto la pellicola “gira” a 24 fotogrammi al secondo (fps), mentre i segnali televisivi funzionano in modo diverso. Senza addentrarci troppo in tecnicismi, potremmo dire che i fps di un segnale televisivo – almeno per quanto riguarda la TV a colori – è circa uguale alla metà della frequenza elettrica. In Europa, dove la frequenza elettrica è di 50 Hz, i fotogrammi di un segnale televisivo sono 25 al secondo. Negli Usa, dove la frequenza è 60 Hz, i fotogrammi al secondo sono circa 30, più precisamente 29,97.
Sul perché di questo singolare numero, vi rimando a questo video su YouTube:

Ne consegue che quando un filmato in pellicola doveva essere riversato per la televisione, veniva fatto girare a velocità superiore per non dare problemi di conversione o fotogrammi neri. Ciò portava a una maggiore velocità dell’immagine e dell’audio, quasi impercettibile a 25 fps, ma già notevole e straniante a 30, negli USA.
Fu così che molte serie degli anni ‘70, ‘80 e ’90 furono girate direttamente con lo standard televisivo vigente nel loro paese di produzione… non risolvendo assolutamente nulla: se un prodotto è girato a 25 fps in Europa, dovrà poi essere convertito a 29,97 fps per l’America, e torniamo al punto di partenza [in figura, una spiegazione grafica della conversione da pellicola a video].

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Molto spesso la distinzione tra ripresa in RVM (cioè il segnale di tipo televisivo, ovvero a qualità mediocre) e la ripresa in pellicola può essere ricondotta a ragioni di budget: lo sviluppo della pellicola è costoso, l’attrezzatura per la ripresa ancor di più, senza contare la cura del dettaglio che richiede. Questa distinzione di budget porta inevitabilmente a una distinzione di genere. Le Soap Opera o Telenovele, constando di centinaia di episodi all’anno, furono riprese spesso in RVM, mentre serie più brevi e curate venivano girate in pellicola. Alcune serie come Doctor Who (1963-1989) utilizzarono inizialmente il sistema ibrido per poi passare definitivamente a quello televisivo.

Altre serie storiche invece, sia per questioni produttive sia per questioni estetiche, furono girate in pellicola (per fare qualche nome: Starsky & Hutch, La signora in giallo, Twin Peaks).
Non mi addentro ulteriormente nelle differenze tra segnale televisivo analogico e pellicola ma basti sapere che, per questioni intrinseche di qualità dell’immagine, una serie in pellicola ha una qualità tale da essere ancora oggi trasferibile in definizione ultra HD, mentre un segnale televisivo analogico ha una qualità che lascia molto a desiderare e si porta dietro tutto il peso dei propri anni, senza contare che il nastro si smagnetizza.
Molte volte il sistema ibrido crea molti problemi quando si deve ri-masterizzare una pellicola in alta definizione, poiché vanno ricreati tutti gli effetti e il montaggio aggiunti in post-produzione.
Per chi fosse interessato all’argomento della rimasterizzazione in HD di serie montate in dominio ibrido, può essere interessante questo video:

Dopo decenni di sostanziale dominio inalterato di questi sistemi, verso la metà degli anni ’90 cominciarono a essere utilizzati i sistemi di ripresa e trasmissione digitali, che permettevano non solo una più facile conversione tra uno standard e l’altro ma che, alla lunga, ne hanno creato uno nuovo, che permette oggi la più facile condivisione dei contenuti.
Nei primi anni la ripresa digitale più diffusa aveva una definizione simile a quella dei DVD (chiamata oggi “definizione standard”, di 720×576 pixel per l’Europa, 720×480 per gli USA che giustamente vollero un numero diverso dal resto del mondo). Questo tipo di ripresa era ancora legata al numero di fps (25 o 29,97) del paese di origine. Tra le serie così riprese ricordiamo Will & Grace (1998-2006) o le prime quattro stagioni del nuovo Doctor Who (2005-2008).

Nato nei primi anni ’90, pochi anni più tardi iniziò ad affermarsi il nuovo standard della TV in alta definizione (con risoluzione molto più alta: 1920×1080), oggi il più diffuso. In questa delicata fase di transizione, molti produttori e sceneggiatori preferivano la tradizionale ripresa in pellicola per poi riversarla in digitale ad alta definizione, operazione riservata a serie ad alto budget (per citare tre generi diversi: LOST, Breaking Bad, Glee) [in figura, la differenza tra le varie risoluzioni video; per il nostro scopo potremmo considerare il riquadro VHS come simile a una risoluzione televisiva analogica].

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Il nuovo standard, finalmente, permetteva di effettuare la ripresa in modo nativo a diverse frequenze fotogrammi, così da poter riprodurre su una TV ad alta definizione contenuti a qualsiasi frequenza. Se per esempio una serie è girata in pellicola e riversata direttamente a 24 fps, la TV non avrà nessun problema a visualizzarla. Lo stesso vale per una serie europea a 25 fps, o una americana a 29,97. Se ancora non si può parlare di unificazione degli standard, un grande passo è stato compiuto in quanto a compatibilità fra di essi.

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Veniamo a oggi: sostanzialmente negli ultimi cinque anni tutte le serie sono state riprese in digitale, con attrezzatura e macchine da presa cinematografiche. Anche qui vale la pena di fare qualche esempio: Game of Thrones, House, American Horror Story, 13 Reasons Why e lo stesso Doctor Who che ho citato molte volte in questo articolo. Si potrebbe continuare per molte pagine ma quel che importa è il concetto.
Sarebbe riduttivo pensare a questo come il traguardo dello sviluppo tecnologico, perché la tecnologia non si ferma mai: Netflix ha recentemente investito in una serie di cineprese digitali che come formato nativo restituiscono addirittura una risoluzione di 6K (circa nove volte rispetto alla convenzionale alta definizione). Citiamo in questo caso Stranger Things, Una Serie di Sfortunati Eventi, The Crown.

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Confronto tra risoluzioni native nella ripresa digitale: in alto a sinistra un fotogramma di “13 Reasons Why” in 2K, in grande il fotogramma in 6K di “Stranger Things”

Insomma, la tecnologia avanza e il numero di serie TV aumenta sempre più (anche se la parola TV a questo punto diventa superflua, considerando Netflix e i nuovi sistemi di fruizione). Difficile individuare la direzione precisa in cui va il mercato, ma è sotto gli occhi di tutti l’evoluzione del linguaggio televisivo, che si trova sempre più a contatto con il Cinema per quanto riguarda tecnologie, cura del dettaglio e impatto visivo.
Non credo che si possa parlare di uno “scontro” come invece poteva valere in passato: piuttosto mi sentirei di dire che c’è un’influenza reciproca tra i due media, che si stanno avvicinando sempre più.

In conclusione, questo “articolone” tecnico e nerd è solo la punta dell’iceberg di tutti i discorsi (tecnici e non) che si possono imbastire sull’aspetto tecnico della TV e su come esso abbia influenzato il linguaggio e il rapporto con altri media. La speranza è che spinga ad approfondire di più gli aspetti produttivi e tecnologici a cui non si fa caso ma che, nel caso delle serie TV, sono tutt’altro che ininfluenti.

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La serie Netflix del momento, Tredici, ideata da Brian Yorkey e tratta dal romazo “13” di Jay Asher racconta la storia della liceale Hannah Baker (Katherine Langford), suicida, la quale invia sette audiocassette ai responsabili della propria morte, nelle quali espone i tredici motivi che l’hanno portata al tragico gesto. La storia segue le vicende del giovane Clay (Dylan Minnette), amico di Hannah, che costretto ad ascoltare le cassette per evitare la divulgazione del loro contenuto, viene a conoscenza di sconvolgenti realtà che coinvolgono alcuni dei suoi compagni di scuola. Attraverso le cassette e i ricordi di Clay siamo in grado di conoscere Hannah e il suo modo di vedere il mondo, la quale si rivela essere una ragazza carina, gentile e solare, ma emotivamente instabile e tormentata.

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Tutto inizia con la classica cotta del liceo per la persona sbagliata, Justin, colpevole di aver diffuso foto e rumor a sfondo sessuale riguardanti Hannah, per poi passare alle amicizie troncate con Jessica e Alex, alla lista che quest’ultimo aveva scritto, allo stalking di Tyler, alla morte dell’amico Jeff e addirittura allo stupro da parte di Bryce di Jessica e della stessa Hannah. Assistiamo alla dipartita di Hannah che cerca di rialzarsi dopo l’ennesima caduta, arrendendosi ingiustamente e alle reazioni di Clay, corroso dal “senno di poi” e dai sensi di colpa, presente nei nastri, “colpevole” di non essere riuscito ad amarla.

Ad accompagnare il racconto di Hannah c’è una colonna sonora indimenticabile, dai The Cure ai Joy Division, alla cover di Selena Gomez (anche produttrice della serie) della storica “Only You” degli Yazoo.

Grande critica verso la serie è stata quella di motivare il suicidio, ritenuta un cattivo modello per i ragazzi che potrebbero trovare nel suicidio la soluzione ai propri problemi, entrando in empatia con il personaggio di Hannah. Ma è proprio il contrario ciò che accade con Tredici, che cerca il più possibile di far riflettere lo spettatore facendolo entrare in contrasto con il personaggio di Hannah che ad un certo punto della storia risulta essere addirittura irritante ed egocentrico, quando allontana le persone che tengono a lei, come Clay e i genitori, e chi cerca di aiutarla come il Sig. Porter del consultorio scolastico. Lo scopo della serie non è l’immedesimazione dello spettatore con Hannah, non è di giustificare il gesto atroce di Hannah reso ancora più raccapricciante dalla scena della vasca, a sottolineare che nella morte non c’è nulla di bello. La comprensione dello spettatore è tutta rivolta alla famiglia che cerca disperatamente di capire cosa abbia portato la figlia a voler porre fine alla propria vita e a Clay, che cerca in tutti i modi di rendere giustizia all’amica.

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Non esente da difetti come la lentezza nella narrazione di alcuni episodi (Clay ascolta quelle dannate cassette!!) e il gran numero di stereotipi sui ragazzi americani che siamo troppo abituati a vedere al cinema e in tv, la serie si rivela però decisamente coraggiosa nel trattare temi estremamente delicati in particolare per quanto riguarda la sfera giovanile, senza tralasciare alcun aspetto che riguarda gli adolescenti, come l’alcolismo e l’omosessualità, oggi più che mai nell’era del cyberbullismo e dei social.

Tredici è dunque una serie che fa riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni e sulla morte, sicuramente non la migliore dell’anno, ma ha motivo di essere tra i must, soprattutto per più giovani.

E voi l’avete vista? Gioiellino o ciofeca? A voi l’ardua sentenza!

Nel frattempo vi lasciamo con la notizia del rinnovo di Tredici per una seconda stagione!

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Se come me siete amanti delle serie tv comedy ma non ne potete più di riguardarvi allo sfinimento le repliche di The Big Bang Theory o How I Met Your Mother, oggi vi consigliamo alcune delle serie più divertenti, politically incorrect e sconosciute degli ultimi anni.

“You’re The Worst” FXX

“You’re The Worst” è la commedia romantica per chi odia le commedie romantiche. I nostri protagonisti Jimmy, uno scrittore lunatico e misantropo e Gretchen, una PR festaiola e cinica, si incontrano a un matrimonio, dove lui ha molestamente interrotto i festeggiamenti e lei ha rubato un regalo dalla lista nozze. Da questo incontro partirà la relazione incasinata dei due, che aiutati dagli amici Edgar e Lindsay, faranno a gara per essere il peggiore, e, nonostante tutto, finiranno per diventare la vostra coppia preferita.

“Veep” HBO

Se vi piacciono le serie tv di satira politica in “Veep” troverete sicuramente quella che fa per voi. Seguiremo le vicende di Selina Meyer prima vicepresidente (VEEP appunto), poi candidata alla presidenza e poi presidente degli USA e del suo fantastico team, nella loro completa inettitudine. Veloce e tagliente, in Veep troverete gli insulti più creativi e divertenti della TV.

“Master of None” Netflix

“Master of None” è una serie creata dallo stand up comedian Aziz Ansari (che forse qualcuno di voi avrà visto in “Parks and Recreation”). Parla della sua vita da aspirante attore a New York tra amicizie, amori e famiglia e un folle amore per la pasta. Una serie che ti mette subito il sorriso in faccia e a tratti veramente toccante.

“Silicon Valley” HBO

Dal creatore del cartone cult MTV “Beavis and Butthead” arriva questa serie che ci porta all’interno della Silicon Valley… non quella di Google o Facebook però. Quella delle piccole start up che provano a farcela. Il nostro gruppo di protagonisti nerd infatti passerà stagioni intere a proporre idee ai big della Valley, non sempre con risultati positivi.

“Archer” FX

Un nome in codice: Duchessa. Un uomo: Sterling Archer. Un’agenzia privata di spionaggio a condotta familiare con uno scienziato pazzo fidanzato con un ologramma di una ragazzina giapponese, una segretaria stramba cocainomane, l’altra svampita erede di una famiglia miliardaria…  Il tutto tra intrecci amorosi, avventure in giro per il mondo e ovviamente all’insegna del plitically incorrect. Cosa volere di più?

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Con questo primo articolo inauguriamo una nuova rubrica che parlerà di quei titoli semi sconosciuti disponibili su Netflix che ci sono piaciuti.

“Midnight Diner: Tokyo Story”

“Midnight Diner:Tokyo Story”, è un telefilm Giapponese del 2009 prodotto in collaborazione con Netflix. Il sito ci offre solo la prima stagione di questa chicca nipponica, anche se sono state prodotte tre stagioni e anche due film. Protagonista di questa serie è una tavola calda notturna edochiana e le storie dei suoi clienti abituali. E’ una serie antologica, per ogni episodio c’è un protagonista diverso, riuscendo a mettere sotto i riflettori diverse storie di diversi personaggi, dal comico fallito al promettente fisico, da una riservata tassista ad un’ingenua agente immobiliare; tutti legati dallo stesso filo rosso: la tavola calda. Dipingendo così un quadro melanconico della società Giapponese odierna dove vengono affrontati temi molto discussi, come l’accettazione dell’ omossessualità (tabù in tutta l’Asia).

Le situazioni di lui e lei netflix

Le sequenze sono curate fin nei più piccoli dettagli, le riprese sono per la maggior parte a piano fisso e soggettive, grazie a quest’uso della cinepresa Tokyo non ci sembrerà più lontana, ci sentiremo bensì accolti della metropoli. Una nota nostaligica è data dalla colonna sonora “Omoide” di Ludens, scelta azzeccatissima. L’ambientazione notturna così suggestiva è esaltata anche dal sapiente uso della luce, che gioca un ruolo importante: la luce infatti ci guiderà attraverso lo stato d’animo del personaggio. Anche il cibo è parte integrante di questa serie, infatti ogni episodio prende il nome della ricetta abituale del protagonista dello stesso episodio: mettendoci l’acquolina in bocca ed introducendoci al personaggio nonché alla cultura culinaria asiatica. Per concludere sfatiamo un mito: gli attori giapponesi hanno una recitazione molto impostata e “minimal” che non ha niente da invidiare a quella occidentale.
Geroldi Cecilia, dalla redazione Cliffhanger.

Le situazioni di lui e lei netflix

Il momento è finalmente giunto, ieri era l’11 aprile 2017, ed ha fatto capolino su Netflix “Mabel”, la prima puntata della terza stagione di Better Call Saul, la serie spin-off che narra le vicende dell’avvocato Jimmy McGill (Bob Odenkirk) e di come si è trasformato nell’amato (dai fan) Saul Goodman di Breaking Bad.

L’episodio inizia, come le première delle stagioni precedenti, con una breve sequenza in bianco e nero dove si vede il nostro avvocato, ora sotto il nome di Gene, lavorare in incognito in una pasticceria di un centro commerciale, dopo gli eventi di Breaking Bad. Per la prima volta in questi segmenti, il nostro “eroe” parla. Dopo aver visto un ragazzino rubare nel negozio vicino e avere timidamente indicato il suo nascondiglio agli agenti, Jimmy/Saul/Gene si alza in piedi e mentre i vigilanti portano via il giovane, gli urla: “Trovati un avvocato!” Poco dopo l’uomo torna a lavorare e improvvisamente sviene. Già i fan si sono sbizzarriti sul web per la spiegazione a questo svenimento. Diabete? Semplice stanchezza di vivere in quel modo?

Alla fine della scorsa stagione abbiamo visto Jimmy ricorrere a un espediente non del tutto legale per vincere una causa, e abbiamo scoperto che mentre lo confessava al fratello (Chuck, interpretato da Michael McKean, che si sta giocando con Skyler il ruolo di personaggio più odiato dell’universo di Breaking Bad), quest’ultimo ha registrato la confessione di Jimmy a sua insaputa.

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Tu guarda che individuo…

In questo inizio di stagione, vediamo un Jimmy frustrato (come lo era Gene nella sequenza iniziale) e dispiaciuto dal rancore che gli porta il fratello; il nostro eroe tenta di farsi consolare dalla collega e interesse romantico Kim Wexler (Rhea Seehorn). Per Jimmy le cose vanno male, anche altri nodi stanno venendo al pettine, riguardanti le piccole scorrettezze e illegalità commesse dall’avvocato per perseguire i propri fini nelle stagioni precedenti. Ciononostante, Jimmy non appare per niente disposto a tirarsi indietro, ormai è convinto di quello che fa.

A catalizzare l’attenzione in questa puntata è tuttavia il buon vecchio Mike Ehrmantraut (Jonathan Banks), che fin dall’inizio di questa nuova serie funge da principale collegamento con l’universo criminale caro ai fan di Walter White. Dopo aver rincontrato la famiglia Salamanca, tra cui un Hector ancora in grado di parlare, ora c’è un grande ritorno che molti fan aspettano, e che da tempo ci avevano promesso: Gus Fring. A quanto pare l’antagonista più amato (da me almeno) di Breaking Bad riapparirà in pompa magna in questa terza stagione… spiace dire che in questo primo episodio di Gus non c’è traccia.

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Mi sa che dovremo aspettare ancora un po’, vecchio mio

Le parti dell’episodio con protagonista Mike sono comunque le migliori: in una lunga sequenza senza nessun dialogo inutile, Mike trova una microspia sull’automobile e architetta un complicato piano per scovare i responsabili. Banks, con il suo volto granitico e tuttavia estremamente eloquente, riesce ad affascinare e incuriosire lo spettatore, che si chiede cosa ci sarà dietro quell’espressione imperscrutabile.

Ovviamente, dà una grande mano la regia di Vince Gilligan, che trasforma quasi ogni inquadratura in un’opera d’arte, quindi anche le parti più lente dell’episodio sono un piacere per gli occhi.

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Solo una coincidenza? Per me Gilligan ha contatti all’Olimpo

Eh sì, perché fin dal giorno zero, Better Call Saul ha ricevuto più che altro una critica: è lento. Secondo gran parte dei fan, ci sono troppe scene senza una vera rilevanza sulla trama. Cosa ne penso io? È certo che Better Call Saul non è frenetico quanto Breaking Bad, ed è altrettanto certo che non deve esserlo. Qui si parla di un avvocato, non del re della meth, ci sono chiacchiere legali anziché sparatorie… e solo il tempo potrà dirci se la trasformazione di Jimmy in Saul sarà radicale come quella di Walt in Heisenberg. La serie, a mio parere, è perfetta così com’è, e nonostante questa partenza un po’ “al diesel”, coltivo grandi speranze per la terza stagione.

Frase memorabile: “Oggi, per 10 minuti, Chuck non mi ha odiato. Avevo quasi dimenticato come ci si sente”.

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“Forza Jimmy, per quanto tempo ancora dovrò tenere io in piedi la baracca?”