1 - Premessa; Il tema della consulenza tecnica d’ufficio e del relativo inquadramento sistematico all’interno dei mezzi di prova è da sempre molto discusso [ 1
]. Nuovo interesse alle dispute sulla natura della consulenza tecnica, il cui precedente nel codice del 1865 era lo strumento della c.d. perizia [ 2 ], proviene dalla riforma del processo amministrativo, portata dalla L. 21/07/2000 n° 205, «Disposizioni in materia di giustizia
amministrativa» [ 3 ]; la legge, frutto di un lungo iter parlamentare e volta a “sistemare” taluni interventi della Corte Costituzionale non soltanto su norme processuali [ 4
], agli artt. 1 comma 3 e art. 16 sancisce la caducazione del divieto di disporre la consulenza tecnica d’ufficio nel processo amministrativo ed in particolare innanzi al T.A.R [ 5 ]. La natura della consulenza ha sempre oscillato tra quella di mezzo istruttorio e quella di mezzo di prova. Parte della
dottrina, non solo quella meno recente [23], ha sempre definito simile istituto non come un vero mezzo di prova, ma, piuttosto, come un mero mezzo istruttorio, arrivando a simile conclusione sulla base di una sequenza di considerazioni di ordine generale. In primis, il dato semantico: la consulenza tecnica nel codice attuale ha una collocazione diversa da quella che aveva nel codice del
1865, dove parlandosi di «perizia» [24] non si dava rilievo all’aspetto soggettivo dell’istituto, ma al risultato della stessa [25], ovvero alla dichiarazione del perito che, comunque, poteva essere assimilabile ad una prova documentale; il codice vigente, invece, dà molta più
importanza al profilo soggettivo, inquadrando il consulente fra gli ausiliari del giudice, anzi identificandolo nel suo principale ausiliario, che lo aiuta ad una migliore valutazione dei fatti, già allegati ed asseverati dalle parti, fornendogli le massime dell’esperienza di quello specifico settore di materie che il giudice non conosce [26], e che se anche conoscesse non potrebbe
utilizzare per il divieto di scienza privata [27], che nell’ipotesi considerata tutelerebbe il principio del contraddittorio [28]. Pertanto, e qui si individua il secondo motivo per cui la consulenza non sarebbe mezzo di prova tout court, la sua attività, a differenza di quella del
testimone che è di mera narrazione dei fatti, costituirebbe una valutazione degli stessi, o meglio di prevalenza di simile fase su quella propriamente rappresentativa [29]. La medesima notazione si fa nel processo amministrativo da parte della giurisprudenza per distinguere le perizie (ammesse già prima della legge 205 del 2000 e della stessa sentenza della Corte Cost. del 1987, nella
materia dell’edilizia [30]) dalle verificazioni; per cui, mentre le prime consentirebbero una valutazione tecnica di determinate situazioni da utilizzare ai fini della decisione della controversia, le seconde costituirebbero soltanto un mero accertamento disposto al fine di completare la conoscenza dei fatti raggiunti con l’istruttoria procedimentale
[31]. Tuttavia, ancora ostano a
simile inquadramento dogmatico almeno due problematiche, di origine prevalentemente giurisprudenziale, ed intimamente legate tra loro, riguardanti la surrogabilità e la soddisfazione dell’onere della prova tramite simile mezzo e la discrezionalità del giudice nel disporlo o ritenerlo opportuna. 4. L’attività del consulente «percipiente»: la raccolta delle informazioni e l’acquisizione dei documentiCome giustamente notato, l’attività più frequentemente demandata al c.t.u. è quella di svolgere le indagini tecniche da eseguirsi anche al di fuori dell’udienza e
della circoscrizione giudiziaria [52], alla presenza o meno del giudice [53]. Proprio in relazione a simili attività, come ampiamente richiamato dalla stessa giurisprudenza, il consulente è tenuto a verificare l’effettiva esistenza di alcuni fatti affermati dalle parti o ad
appurare se essi si siano verificati nelle modalità in cui sono stati indicati da queste [54]. Ma proprio in riferimento a siffatte operazioni (che tendono ad avvicinarsi molto anche agli esperimenti, la cui natura probatoria non mai è stata posta in dubbio), dottrina e giurisprudenza si sono soffermati almeno su due distinti problemi non di poco momento: la rilevanza delle informazioni
assunte dalle parti e dai terzi e dell’acquisizione di documenti non prodotti dalle parti. 5. La disponibilità da parte del giudice della consulenzaIn giurisprudenza, ma anche in dottrina, suole affermarsi che la nomina del c.t.u. (un discorso a parte, invece, merita il consulente di parte, dato che la sua nomina può anche avvenire al di fuori di espresso provvedimento del giudice di investitura di quello d’ufficio, ma la cui sussistenza rileva soprattutto in punto di efficacia della relativa
relazione)[77] è una attività discrezionale del giudice e, quindi, rimessa al suo libero apprezzamento [78], salvo i casi di nomina obbligatoria (la cui unica ipotesi è rintracciabile nelle cause relativi a sinistri marittimi, mentre è caduta la nomina obbligatoria per le cause
previdenziali [79]) 6. La valutazione della attività del consulente: la sostituzione e la rinnovazioneIn relazione all’istituto in esame almeno altri due profili hanno suscitato il vivo interesse della dottrina e della giurisprudenza: la valutazione dell’attività del
c.t.u. e la nomina del consulente tecnico di parte. 6.1. La rinnovazione della consulenza in appello Un problema non di poco momento concerne la rinnovazione
della consulenza in appello [96]. In particolare, al di là delle pronunce possibiliste della giurisprudenza [97] e della dottrina, è necessario verificare fino a che punto sia possibile ammettere l’applicazione dell’istituto de quo alla luce del nuovo art. 345 c.p.c. e del divieto
dei nova in appello [98]. In particolare, per la soluzione di questo interrogativo occorrerebbe partire dal concetto di prova nuova per verificare quando sia possibile disporre la consulenza in appello, tuttavia dapprima analizzeremo i vari orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in merito alla rinnovazione delle prove, ed anche della consulenza, in appello
[99]. 6.2 La rinnovazione della consulenza tecnica nel sistema delle prove non nuove in appello In particolare, parte
della dottrina ha ritenuto che la norma contenuta nell’ultimo comma dell’art. 345 c.p.c. non solo determini un limite per l’ammissione delle prove nuove, ma costituisca di per sé un ostacolo invalicabile per le prove non nuove in appello. Il divieto deriverebbe dal fatto che la norma di cui all’art. 345 c.p.c.,, sarebbe espressione del principio di unitarietà della prova e dell’istruzione probatoria, per cui le prove in appello, oltre ad essere indispensabili, dovrebbero essere anche
necessariamente nuove [105]. Tuttavia, per l’analisi che qui si va svolgendo e, in particolare, per un mezzo di prova d’ufficio come la consulenza, il principio di unitarietà può avere una limitatissima applicazione; di fatti, potendo essere considerate prove «non nuove» anche quelle ammesse in primo grado, ma poi non esperite e così quelle che dapprima ritenute ammissibili in primo
grado siano successivamente non ammessa perché irrilevanti superflue od addirittura inammissibili [106], e potendo verificarsi ciò anche per la consulenza (pensiamo ad esempio al caso in cui il giudice ammessa in un primo momento la consulenza perché ritenuta rilevante, successivamente non la esperisca, risultando l’accertamento demandato al consulente tecnico già contenuto in un
documento della pubblica amministrazione), è necessario chiedersi se la richiesta istruttoria in appello sia preclusa alla parte. Sebbene la consulenza sia un mezzo di prova ufficioso che non abbisogna di un’apposita richiesta di parte, dovendo anche il giudice rispettare le preclusioni maturate per le parti e non potendo l’uso dei poteri ufficiosi rimettere in termini le parti al di fuori della ipotesi di cui al 184 bis c.p.c., è necessario intendersi sul significato che per il giudice può
assumere il principio in esame. Per di più, va chiarito che il principio in esame, nel modo in cui è stato usato, o meglio è stato criticato [107], è servito alla dottrina per giustificare uno scavalcamento delle preclusioni istruttorie maturate nel processo di primo grado. Simile esigenza (id est: quella di superare le preclusioni istruttorie maturate nel processo di primo grado) è
stata soddisfatta in due modi dalla dottrina. Alcuni autori hanno ritenuto, in ossequio alla tradizione, di conservare il principio dell’unitarietà della prova e dell’istruzione probatoria in sé, superando il limite alla riproposizione delle istanze istruttorie formulate o meno nel giudizio di primo grado ma precluse o per effetto del meccanismo di cui all’art. 184 c.p.c. o per quelli di cui agli artt. 208 c.p.c.104 disp. att. c.p.c.. In particolare, si è ritenuto che il principio in parola
costituisca un principio di civiltà giuridica che «permetterebbe di preservare l’istruttoria espletata dagli infidi attacchi di prove costituite ad hoc, per confutarla e smontarla brano a brano» [108], e, pertanto, non essendo incompatibile il requisito della novità con la remissione in termini, le eventuali decadenze verificatesi nel corso del processo di primo grado dovrebbero essere
superate o tramite norme apposite (id est: il secondo comma del 208 c.p.c.) oppure tramite il rimedio generale dell’art 184 bis c.p.c. [109] In altre parole, questa dottrina, rivitalizzando le opinioni di illustri commentatori, ha sostenuto che il principio di contestualità o di unità, generalizzato dall’art. 184 c.p.c., andrebbe coordinato con il principio dei nova in appello di cui al
345 c.p.c.; per questa ragione, il terzo comma dell’art. 345 c.p.c. riguarderebbe essenzialmente solo le prove diverse sui medesimi fatti di cui in prime cure e, conseguentemente, le parti, se da un lato avranno la possibilità nei limiti di cui al terzo comma dell’art 345 c.p.c. di dedurre nuove prove sui fatti principali già dedotti in primo grado, d’altro canto potranno chiedere l’ammissione di quelle prove che per un motivo od un altro non sono state assunte
[110]. 6.3. L’applicabilità dei limiti di cui al terzo comma dell’art. 345 c.p.c. alla consulenza tecnica e la prova nuova Parte della dottrina ed anche la giurisprudenza ritengono questo un falso problema poiché, ritenendo che la consulenza non sia una prova, ma solo un mezzo istruttorio in grado di fornire al giudice degli elementi di valutazione tecnica dei fatti già acquisiti e asseverati al processo, non credono che sia applicabile l’art. 345 secondo comma c.p.c.; infatti, starebbe sempre alla discrezionalità del giudice decidere o meno di
disporla, anche per la prima volta in appello. Più in generale, soprattutto la giurisprudenza, ma anche la giurisprudenza teorica, ha generalizzato consimili affermazioni ritenendo non solo che la consulenza tecnica, per la sua particolare natura, sia da escludere dall’ambito di applicazione dell’art. 345 c.p.c., ma anche che si dovrebbe escludere l’applicazione della norma in esame a tutte le prove disponibili d’ufficio
[112]. 6.4 La consulenza tecnica nell’appello lavoro. Un caso di difficile decodificazione: l’art. 441 c.p.c. Un discorso parzialmente diverso merita la consulenza nell’appello per le cause trattate con il rito del lavoro. Da ultimo attenta dottrina ha avuto modo di rimeditare la portata dell’art. 441 c.p.c. , in particolare, il rapporto che intercorrerebbe con il secondo comma dell’art. 437 c.p.c. Già in precedenza alcuni commentatori avevano sostenuto che la consulenza tecnica in appello era disponibile per la prima volta
solo se il ricorso a tale strumento era ritenuto indispensabile [126]. In tal modo, si cercava una sorta di parallelismo tra il secondo comma dell’art 437 e il terzo comma dell’art. 345 c.p.c., per cui la consulenza disposta per la prima volta in appello sarebbe stata assoggettata nel rito ordinario ai limiti di cui al terzo comma dell’art. 345 c.p.c., e nel rito lavoristico ai medesimi
limiti sanciti dall’art. 437 c.p.c. Ciò nonostante, recente dottrina ha ritenuto che, in realtà, la consulenza disposta per la prima volta in appello sarebbe svincolata dal requisito della indispensabilità, poiché la lettera dell’art. 441 c.pc. non ricalcherebbe quella del vecchio art. 453 c.p.c., non prevedendo alcun limite all’esercizio del potere di disporre la consulenza tecnica
[127]. Da questa premessa, la dottrina in parola ha fatto derivare una soluzione sistematica sulla stessa natura della consulenza; infatti, se l’art. 441 c.p.c. non pone limiti al potere del giudice di disporre la consulenza tecnica in appello allora essa non può essere parificata agli stessi mezzi di prova esperibili ex officio. 6.5 La modalità di riproposizione delle istanze istruttorie in appello Una questione connessa a quella sopra enunciata
riguarda le modalità con cui le parti in grado d’appello debbano rinnovare la richiesta della consulenza tecnica negata nel corso del primo grado. Il problema è vedere se sia applicabile alle prove, ed in particolare anche alla consulenza, l’art. 346 c.p.c. [129] Proprio risolvendo questo problema preliminare della natura della consulenza (di cui si è già ampiamente discettato) si potrà
rispondere al quesito se la richiesta in appello della consulenza debba essere fatta come motivo specifico o tramite una semplice riproposizione della istanza nel corso della prima udienza, e se la semplice riproposizione delle domande e delle eccezioni a cui le prove erano collegate determini la loro implicita riproposizione senza alcuna attività propositiva [130]. In realtà la Suprema
Corte, da ultimo [131], ha affermato che l’art. 346 c.p.c. non può essere riferito alle prove, riguardando il solo thema decidendum e non il thema probandum, ma esse devono essere oggetto di riproposizione, oppure oggetto di uno specifico mezzo di gravame laddove ciò sia necessario. In particolare, La Suprema Corte nell’ipotesi in questione ha giustamente notato come sarebbe irrazionale
attribuire al giudice il compito di ricercare ex officio i mezzi proposti dalle parti in primo grado e collegati a quei capi della pronuncia di prima istanza espressamente impugnata. Tuttavia, questa statuizione sembra non essere risolutiva della questione; però ad una più attenta analisi della pronuncia del supremo giudice si evince che, sia pur nel rispetto dell’indirizzo giurisprudenziale più copioso, la corte ha sostanzialmente ritenuto che le istanze istruttorie devono essere oggetto di
riproposizione od addirittura di un motivo specifico d’appello [132]. Tutta questa dissertazione non riguarda le prove nuove, o meglio quelle prove che tendano ad asseverare i fatti nuovi introdotti per la prima volta in appello, poiché esse necessariamente seguiranno le modalità di introduzione dei nuovi fatti nella fase di gravame, ossia essi saranno indicati nell’atto introduttivo
dell’appello [133]. 6.6 I risultati della consulenza e la loro valutazione Per quanto concerne la valutazione dei risultati della consulenza tecnica la giurisprudenza è ormai da anni su posizioni monolitiche nell’affermare che il giudice, essendo il peritum peritorum, può discostarsi in qualsivoglia momento dalle risultanze della consulenza purché, nel discostarsi dalle valutazioni del tecnico, motivi espressamente simile scelta
[138]. Qualora invece ritenga di non doversene allontanare può fare un semplice riferimento alla consulenza, dando luogo così ad una motivazione per relationem [139]. 7. Diritto alla prova contraria e la consulenza tecnica di parteLa consulenza tecnica di parte è un istituto rilevante sotto molteplici angoli prospettici. Infatti, essa non rileva solo come esempio e modo di estrinsecazione del principio di difesa e del suo corollario della parità delle armi, ma dovrebbe essere analizzata anche sotto il
diverso profilo della rilevanza probatoria. In realtà, però, i due aspetti non sono nettamente separati, bensì si contemperano e si fondono; infatti, proprio dalla rilevanza della consulenza di parte come controprova alla consulenza tecnica d’ufficio si capisce come questa ricada nell’ambito di applicazione dell’art. 184 c.p.c. Simile conclusione, però, non è condivisa da tutti i commentatori ed in particolare dalla giurisprudenza. La Suprema Corte in più occasioni ha chiarito, con un
orientamento che è stato fatto proprio anche dalla Corte Costituzionale [141], come il consulente tecnico di parte sia espressione della parte processuale per cui presta la sua opera [142] e, pertanto, il risultato delle sue operazioni non può essere considerato come una
acquisizione istruttoria o latamente probatoria, bensì una mera allegazione difensiva a contenuto tecnico della parte [143]. Da simile postulato fondamentale la giurisprudenza trae una serie di corollari necessari. In primis, essendo la c.t.p. una attività non istruttoria, essa non sarebbe sottoposta alle preclusioni di cui al 184 c.p.c., e quindi queste allegazioni tecniche, tendenti a
criticare, a confutare oppure a sostenere l’esistenza di fatti impeditivi della ricostruzione operata dal c.t.u. [144] potrebbero essere proposte fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, eliminando così il problema dell’ammissibilità della controprova qualora la relazione del c.t.u. sia depositata ben oltre il limite stabilito dall’art. 184 c.p.c. In secondo luogo, si ritiene
che, non essendo la c.t.p. una prova vera e propria, il giudice non abbia un obbligo di motivare espressamente, salvo che la c.t.p. abbia un contenuto preciso, circostanziato e tale da condurre a conclusioni difformi da quelle a cui è giunto il c.t.u. [145] Infine, questo istituto si distinguerebbe nettamente dalla c.d. “perizia stragiudiziale giurata”, la quale, se come la c.t.p. è una
mera allegazione tecnica, se ne differenzia da un lato per il diverso onere motivazionale che incombe sul giudice per disattenderla [146] e dall’altro per la possibilità che ha la parte, che se ne voglia avvalere, di far testimoniare il perito su quanto ha accertato direttamente, così come ha ammesso la stessa giurisprudenza
[147]. NOTE:[ 1 ] Cfr. VERDE, Profili del processo civile, II, Napoli, 2000, 00140; PROTETTI’, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, 1994; DE TILLA, Il consulente tecnico nell’evoluzione giurisprudenziale, GC, 1993, II, 61; GIUDICEANDREA, Consulente tecnico, ED, IX, 1961, 531; VELLANI, Consulenza tecnica nel diritto processuale civile, Dig. disc. priv., sez. civ., III, Torino, 1988, 525; id,
Consulente tecnico, NDI, Torino, 1981, 507; BARONE, Consulente tecnico, EGI, VIII, Roma, 1988, 4. di Luca Petrone - tratto da: www.judicium.it Come contestare una CTU in appello?Contestazione del ctu: modalità e termini
L'art. 445 bis, comma 6, c.p.c. prevede che la parte che abbia dichiarato di contestare le conclusioni del consulente tecnico d'ufficio debba depositare, entro 30 giorni dalla formulazione della dichiarazione di dissenso, il ricorso introduttivo.
Quando la CTU è nulla?Le nullità della consulenza tecnica - compresa quella derivante dall'avere il consulente indebitamente tenuto conto di documenti non regolarmente prodotti in causa - hanno carattere relativo: esse sono perciò sanate se non siano state fatte valere nella prima difesa o istanza successiva al deposito della relazione.
Quando una CTU sbaglia Cosa succede?Dal punto di vista penale, il consulente del Giudice rischia, inoltre, l'arresto fino a un anno e l'ammenda fino a 10.329 euro, come vedremo appresso. Non va mai dimenticato che il CTU che sbaglia è obbligato a risarcire i danni causati alle parti.
Quando la CTU e meramente esplorativa?2697 del codice civile. Si parla di ctu esplorativa quando non è finalizzata a fornire al giudice uno strumento di valutazione dei fatti, ma a fare entrare nel processo nuovi fatti, che le parti avrebbero dovuto invece dedurre e provare.
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